Leonardo

Fascicolo 6


Metodo storico e metodo estetico
di Giuseppe Antonio Borgese
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Disse Oscar Wilde a chi si lagnava che taluno attore portasse sulla scena non l'Amleto di Shakspeare, ma il suo proprio, che non esiste l'Amleto di Shakspeare e che vi sono tanti Amleti quante sono le malinconie degli uomini. Quest'uomo di variabile spirito amava di sfiorare con mani signorili i fiori del suo pensiero: era troppo ricco e assai poco crudele per coglierli. Egli avrebbe potuto esprimere il suo pensiero in una forma più rigida e più comprensiva, avrebbe potuto dire che nulla ritorna e come non si rivive un giorno trascorso non si riprova nemmeno la passione di un poeta, non si rifà la sua creazione. Ma forse abborriva dall'uso dei logici, che, non appena han creato un pensiero, imitano l'antico Apollo, e lo scorticano, anzi gli strappano le fibre e i visceri, e godono di vederne il nudo scheletro. Era troppo artista per amare gli schemi.
   Ma è pur vero che simili pensatori sono volubili come le farfalle e se conoscono la dolcezza delle liete apparenze negano a sè stessi la gioia delle profondità. Il Wilde scrisse un lungo dialogo sul critico artista, nel quale svolazza deliziosamente, ma teme di turbare la sua gioia, quando ha espresso un bel pensiero, col chiedersi che cosa esso significhi e a che possa condurre. L'impossibilità di riprovare ciò che una volta fu provato gli avrebbe altrimenti suggerito considerazioni ben più notevoli sulla critica di quelle che il suo orrore per l'ordine gli ha permesso dí fare.
  E intendiamoci una buona volta sulla parola critica, poichè fervono le discussioni intorno al metodo migliore che in esso dobbiamo seguire: non sono molti giorni dacchè Alessandro d'Ancona rispondendo sul Giornale d'Italia ad un innominato, che aveva incolpato il metodo storico di quei difetti che nella gioventù universitaria contemporanea deplorava Guido Mazzoni, considerava come risoluto il vecchio conflitto e riproponeva una formula di conciliazione non novissima: quella della sintesi poggiata sua saldo terreno dell'analisi. Ma non mai gli uomini s'affannano tanto a proclamare inutile un conflitto come quando esso ferve in tutte le intelligenze; e, poichè siamo entrati nella filosofia spicciola, lasciate che ìo m'appelli ad una delle vecchie panacee del senso comune: che non pochi problemi sorgono da un equivoco di parole. In verità non sarebbe tempo di dare una precisa significazione alla parola critica, di comprendere che essa vale giudizio estetico?
  E c'è un metodo dí giudizio? I letterati han penato molti secoli prima di comprendere che bello signifca qualcosa di diverso da morale, da utile da dilettevole, da conforme ad un modello e cosi via; ma ora sembra che anche i più retrivi comincino a rassegnarsi. Veramente è un sacrificio non lieve: come si farà ormai la critica, che prima era cosi facile? Sia che si scegliesse un catechismo — quello più in voga — o gli exernplaria graeca ci¬tati da Orazio o le necessità sociali riconosciute dalla folla, non era troppo arduo esaminare se l'opera incriminata seguisse il catechismo, imitasse gli esemplari o proclamasse i bisogni del popolo. E notiamo che, se nella critica morale e sociale si alterava il problema, si eludeva invece scioccamente nella critica dei confronti, la quale presupponeva (ne parlerò come di cosa morta per compassione verso certi critici non ancora morti) un giudizio libero dei modelli. Or io mi ridomando: come dovremo criticare un'opera d'arte: qual valore avrà il nostro giudizio: questo è bello, questo non è bello?
   So bene che gli uomini sono capaci di tutte le scelleratezze e che taluni ingegni, anche non poveri, furono incantati dal sogno alchimistico dei canoni d'estetica e del giudizio esatto. Ma io domando a costoro a che cosa servano questi canoni, se ad impedire il giudizio immediato o a correggerlo, se a guidarlo o solamente a spiegarlo. Le mie domande sarebbero identiche, se qualcuno avesse posto le leggi della simpatia: mi vieteranno esse di provare un moto d'affetto o di repulsione per un uomo incontrato nella strada, prima che io abbia potuto compiere l'analisi dei suoi caratteri e giudicato dei loro valori secondo le leggi della simpatia? Certamente che no, e così nessun canone estetico potrà impedirmi un'esclamazione


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alla prima vista di un palazzo, alla prima lettura di universo. E se io in seguito cambierò il mio giudizio ripensando alle leggi da me poste, negherò implicitamente ad esse ogni valore poichè riconoscerò l'esistenza di valutazioni estetiche al di fuori dei canoni; e se il mio giudizio istintivo sarà sempre identico al mio giudizio riflesso — giova talora discorrere dell'impossibile — ciò vorrà dire che le mie pretese leggi estetiche non erano che leggi del mio spirito. A quelli che amano in medicina le pillole ed in ragionamento le formule, più facili ad ingoiarsi, dirò che o la legge suona: questo noi dobbiamo ammirare, nel qual caso sarebbe una pretesa degna degli asterischi Baedeker, o suona: questo noi ammiriamo, e allora, se non sapessimo che molti uomini ammirano quello che molti altri detestano, varrebbe a farci conoscere le tendenze della nostra anima, non già a rendere preciso e scientifico il giudizio. Quando il Croce, in principio alla sua Estetica, affermava che i limiti fra l'espressione che chiamiamo arte e quella che chiamiamo non arte sono puramente empirici, stabiliva l'impossibilità di una scienza direttrice della critica. Pure un uomo di nobilissimo ingegno, G. A. Cesareo, si affanna ad esaminare scientificamente ì personaggi delle opere d'arte e secondo la loro rispondenza a certe leggi determinate, giudica e manda. Nè comprende che il valore della sua critica è semplicemente questo: il tale personaggio non suscita in me approvazioni, eccone il mio perchè. Il giudizio è palesemente anteriore all'esame, il quale non ha dunque altro valore che un valore artistico, quello di persuadere e di comunicare. Anche nel giudizio storico — quello del magistrato, per esempio — può esservi una predisposizione , se non che noi possiamo ben dire che incliniamo a credere taluno innocente, che forse il fatto si svolse la sera e non la mattina, e così via; mentre in un giudizio affettivo, com'è quello estetico, la parola forse non ha significato. Un'opera può oggi sembrarci bella, domani più bella, un altro giorno stucchevole, e noi possiamo anche essere consci di tale variabilità, ma in un dato momento l'impressione che fa su noi un'opera d'arte è unica ed assoluta. Concediamo pure che un metodo di critica possa con l'esame scientifico di un'opera d'arte renderci capaci di un giudizio razionale e spassionato: esso non potrà mai distruggere la prime impressioni libere, o se si vuole, antiscientifiche, le quali peseranno sulla bilancia. E, cosa ancora più strana, i fautori della critica scientifica, non si accorgono che un metodo di giudizio è fratello carnale di un metodo di creazione e un codice di critica porta nel suo grembo un trattato d'arte poetica.
   Smascheriamo una bella frase, la critica scientifica, e troveremo uno sproposito di psicologia, il metodo di giudizio. Non vi sono metodi, ví sono solamente modi secondo i quali noi giudichiamo. L'audizione o la contemplazione d'un'opera d'arte risuscita in noi antiche emozioni e le ordina novellamente, e nella lettura rapida di un poeta, nell'audizione disattenta d'una sinfonia, noi chiamiamo più belle quelle parti che hanno forza di risuscitare più numerosi e più intensi stati spirituali, meno quelle che scuotono debolmente la nostra inerzia e che perciò ci allontanano meno dalle cose presenti. I nostri avvenimenti della giornata, l'ultima notizia ricevuta, forse il colore del cielo o la mitezza del clima o la compnia di certe persone non rimangono estranee al giudizio nostro, perchè nella nostra anima signoreggiata dalle condizioni presenti talune immagini talune emozioni son pronte a risorgere per lo stimolo più lieve, altre giacciono nel profondo. Se il vostro animo è afflitto profondamente, che una musica plebea, che una fanfara passi sotto la vostra finestra, e forse piangerete; palpiti nella lontananza la melodia più nobile di Chopin, forse non udrete nemmeno, e solamente il ricordo di altri momenti nei quali eravate più liberi v'impedirà di trarre dalla vostra commozione o dalla vostra inerzia un giudizio estetico. Essere libero, ecco la principale volontà del critico, e taluno affermò di essere oggettivo, tale altro si disse capace di spogliarsi di sè medesimo e di sommergersi nell'animo del poeta. Ingenue illusioni! Ma se per libertà intendiamo quella lontananza dalle piccole e dalle grandi cose che formano la nostra attività pratica dell'istante e quella disposizione di spirito, per cui offriamo alla parola del poeta le corde della nostra arpa che vibrano simpaticamente al suo respiro come il giunco offre la sua cima docile all'onda, noi possiamo con sottili artificii di sogno raggiungere la libertà, o almeno credere di averla raggiunta. E non è questo tutto quello che noi possiamo? Accettare i suggerimenti dell'artista, togliere le saracinesche della nostra anima, aprire le finestre? Qualunque sia la nostra opinione sulla possibilità di rifare ciò che fu fatto — sia che la neghiamo del tutto, sia che affermiamo con Emerson che l'uomo può pensare quello che Platone pensò, sentire quello che i santi sentirono, intendere ciò che in ogni tempo avvenne — dovremo convenire che assai più profondamente, ove tutto il resto fosse pari, sentirà una canzone dell'Arcadia chi guarda i bossi di una villa medicea da una finestra presso a cui una fanciulla frivola sorride ed una donna giunta al pomeriggio della giovinezza canta pianamente un'aria, del Caccini, anzichè colui che la reciti a piena voce passeggiando sulle rive d'un mare irato. Arte profonda, figlia del lungo amore per la poesia e della gioia pura, questa di accordare le nostra anima secondo il ritmo di un'altra; nessun violino sonerà come un altro violino, ma se il musico seppe destramente girar le chiavi, potrà sonare armonicamente con esso; e allora noi saremo signori dell'opera altrui, quando ad ogni sua parola o ad ogni sua linea risponderà un moto euritmico della nostra fantasia. Se io dispregio l'Aleardi, se l'uomo del popolo non intende Pindaro, che altro è questo se non in lui la mancanza d'uno strumento capace di rispondere alle melodie più aeree, in me l'insofferenza di destare un' eco ai gridi rochi ed alle nenie da cantastorie?
   Quando abbiamo raggiunto la libertà, noi abbiamo intuito un'opera d'arte, ma un'opera nostra, tutta nostra: dai suoni e dalle linee altrui non avemmo che lo stimolo. Le reminiscenze e le emozioni richiamate dal silenzio in cui giacevano le une dalle altre sotto l'impulso di una parola armoniosa o di un colore vivace o di una musica lenta, alterano tutte le onde del nostro oceano interiore, e a questa apparizione d'un mondo ignoto forse ci percorre un brivido. Poi le emozioni e le immagini si risommergono nel gurgite, tornano a navigare nella corrente placata.
   Ma se, raramente, persistono sulla superficie, se l'incendio non sí spegne, se le passioni non si adimano, noi siamo spinti irresistibilmente ad esprimerle. E l'artista ricercherà in sè l'espressione di quelle :immagini, che furono bensì suscitate dall'opera altrui come altra volta furono suscitate da un aspetto delle cose, ma che egli sa sue, solamente sue; mentre il critico ritorna all'opera ispiratrice. Questi ingegni singolari più ricchi forse dei poeti, ma più incuranti di sè stessi ed amanti dell'ozio, chiedono agli altri il modello entro cui versare il loro metallo. Non forse sono critici i poeti, quando cantano sè stessi nei miti del popolo o nelle favole e nei racconti dei loro antenati? Cosi fa il critico per l'opera del poeta. Egli ritorna ad essa più ricco di come ne era partito, pieno l'anima di una visione oltrepotente, e chiede all'artefice che diede il primo urto alla sua fantasia: mezzi d'espressione capaci di fissare la sua creazione ulteriore. Come il giudizio dell'uomo comune è una valutazione dell'intensità e della varietà di sentimenti che in lui ha suscitati una semplice contemplazione d'arte, il giudizio del grande critico non è che un confronto tra la forma dell'artefice e la sua creazione personale che, da essa originata, egli vuole in essa determinare.
   Credeva Francesco De Sanctis che il metodo del suo giudizio consistesse nel confrontare ciò che l'artefice aveva voluto con ciò che gli era riuscito di fare. Ma sapere ciò che un poeta volle fare non possiamo noi, perchè non potè nemmen lui e, quando disse qual fu l'origine e quale la finalità della sua opera, si mostrò spesso critico non profondo. Sarà necessario ricordare quel che scrisse Edgardo Poè sul modo in cui egli pretendeva di aver composto il Corvo? O la nota, in cui Gabriele d'Annunzio dichiara che Eleabani è un semplice esercizio di lingua e di stile? Il De Sanctis, come gran parte degli uomini, aveva bisogno di credersi oggettivo, e non osò mai confessare a sè medesimo che egli non confrontava ciò che un poeta aveva voluto con ciò che aveva fatto, ma sebbene ciò che egli desiderava in un poeta con ciò che il poeta gli offriva. Questo grandissimo spirito legge il canto di Farinata, e ne sente scossa con violenza la sua anima. Fin qui il suo modo di giudizio non differiva da quello del comune lettore; ma ecco egli ripensa e avidamente, ardentemente, furiosamente costruisce il suo Farinata. Vorrebbe esprimerlo se potesse: ritorna a Dante, all'inspiratore. E allora tra il critico e il poeta s'impegna la lotta e non è il critico, come fu già detto, artifex additus artifici, ma, come io credo, artifex oppositus artifici. Come nel mito popolare l'aquila trasporta nei cieli l'eroe, perchè esso offra cibo ad ogni sua richiesta, così il critico sublima il poeta che gli appresta le parole per i suoi fantasmi muti. Dante ebbe facile vittoria sul De Sanctis: il critico sublime non immaginò nulla di cosi grande che le parole di Dante non bastassero a significare; ma come egli seppe arricchirle! Quali colorazioni nuove, quali significazioni insperate non donò egli a certe sillabe che prima ci sembravano quasi ignude! Ricordate il verso del canto decimo:

dalla cintola in su tutto il vedrai.

   Era un verso di Dante, forse non più grande di multi altri, finchè non ne parlò questo poeta napolitano, costretto come l'antico Narcisso a cercar nelle altrui fontane la bellezza della sua anima. Ma da allora esso mi sembra veramente un divino verso di Francesco de Sanctis fatto delle parole di Dante Alighieri.
   Ripensiamo ancora al de Sanctis — lasciate che io m'indugi intorno a questo solitario Ercole della critica — quand'egli parlava di Francesca da Rimini, e paragoniamolo a Gabriele d'Annunzio tragico. L' unica differenza fra i due è che il primo ricreava un'antica espressione, l'altro aveva la forza di cercarne una nuova.
   Certame così intesa, la critica non pretenderà di dare un giudizio assoluto ne un giudizio giusto; ma solamente coloro che pesano le parole secondo il loro suono confondono il giudizio con la giustizia: la giustizia, quella giuridica per esempio, consiste nell'applicazione rigida di una convenzione necessaria alla società: ma vi sono convenzioni nell'arte? La convenzione è un modo di vita pratica; come vorremmo introdurla nella creazione contemplativa?


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Non faranno più studi!, ma saggi, non più libri,
ma titoli, non più opere, ma contributi:
soltanto saggi, titoli, contributi.
G. PASCOLI


   Ora, dopo quello che ho detto, io vorrei chiedermi qual significato abbia quello strano connubio di parole, che oggi tutti ripetono, la critica storica, e che cosa valga quell'altro strano paradosso di cui parla Alessandro d'Ancona, il metodo estetico. Non v'è che un metodo, il metodo storico, e non v'è che una critica, la critica estetica.
   Sia anche questa volta colpevole dell'insana lotta un miserabile scambio di parole: la battaglia non era per la critica, ma per la storia letteraria. In verità negli ultimi anni critica non s'è fatta che delle novità librarie, e tutti sono stati d'accordo nell'essere empirici plebei e inconcludenti: s'è fatta la critica affermando semplicemente, secondo i gusti, ma, s'intende, senza gusto, che un'opera è morale o immorale, umana o barbarica, artifiziata o sincera, interessante o noiosa. S'è fatta invece molta storia letteraria, e qui era necessario stabilire il metodo. E naturalmente i metodi erano diversi secondo la diversità delle cose di cui si voleva fare la storia: taluni, ben pochi, pretesero di narrare l'evoluzione del pensiero e dello spirito nella storia dell'arte, altri, moltissimi, vollero narrare la vita e i fatti di coloro che fecero opere d'arte e le vicende di queste opere lungo i secoli, le fonti e le imitazioni. Questi vinsero, e chiamarono metodo storico quello che essi facevano, metodo estetico quello degli altri, precisamente come ogni volta che si fonda una nuova chiesa i proseliti si affibbiano il nome di ortodossi e chiamano gli altri miscredenti. Non vi era dunque che da una parte una storia di fatti, dall'altra un tentativo di storia del pensiero, e si vollero creare queste amenissime determinazioni di metodo storico e metodo estetico. Naturalmente metodo estetico era un cortese eufemismo: nelle camarille dei sapienti si parlava di chiacchiere, di vaniloquii, di imposture, e, perche no? Anche di formule astratte, come se vi fossero formule concrete.
   Certamente qualcuno penserà che io voglia risolvere il grave conflitto, e mi chiederà se io sia partigiano del metodo storico o del metodo estetico, e se appartenga all'Italia settentrionale o alla meridionale. Ai cultori di statistica confesserò che, ahimè, sono siciliano e perciò incapace di critica scientifica; ma la loro domanda è cosi bizzarra come quella di chi mi chiedesse se preferisco la chimica pura o il giuoco del pallone. Ci sono stati fatti, son vissuti artisti, han subito l'influsso delle loro condizioni di vita e dei capolavori che li precedettero? E dunque non sarà inutile rivolgere la nostra attenzione ai fatti e ai documenti. Ho, benchè siciliano, troppo a cuore la molteplicità del mio ingegno per decretare l'ostracismo a talune delle attività intellettuali. Se disconoscere gli sforzi altrui è segno di meschinità di mente o di rabbia canina, come non ammirerei le Fonti dell'Orlando Furioso o le Origini del teatro in Italia?
   Sono capolavori di quella che potrebbe chiamarsi la storia dei fatti esterni dell'Arte. La quale - nè m'importa se la mia asserzione parra strana - è una ricerca che non ha altro fine che sè stessa, ed e ben lungi dal preparar la materia per una storia più intellettuale, nè costituisce l'analisi per la sintesi futura, come molti dei ricercatori di documenti amano affermare. Realmente la storia di un uomo, di un popolo, di una specie o di qualunque altra categoria non è, un ultima analisi, se non la storia dei suoi caratteri specifici, e per questo appunto narrerebbero bene il cammino dell'umanità coloro che esaminassero lo svolgimento del suo intelletto, mentre quelli che descrivono le sue vicende economiche e materiali non fanno altro che un capitolo di zoologia o di biologia. Ora l'uomo di genio è costituito da ciò che lo accomuna agli altri uomini o da ciò che lo distingue? La sua vita è tutta nelle tempeste e nelle germinazioni profonde della sua coscienza. Le tendenze di pensiero più recenti distinguono sempre più nettamente la nostra vita quotidiana data dalle onde superficiali della coscienza ed il nostro essere più intimo e più profondo e credono sempre più vasta l'opera dei nostri abissi impenetrabili. Il Meyers distingueva due personalità, che disse sopraliminare e subliminare, l'una madre della nostra vita comune ed apparente, l'altra fonte dei fenomeni psichici più oscuri e complessi e dell'intuizione geniale, l'una mortale l'altra sopravvivente.
   L'uomo di genio ci lascia da un canto la memoria dei suoi piccoli atti, delle sue piccole virtù e dei suoi piccoli vizii, le sue lettere bugiarde o volgari, i suoi conti e i suoi appunti quotidiani, dall'altra ci lascia l'opera sua, il capolavoro. Ebbene, gran parte di coloro che ricercarono la vita quotidiana dei grandi uomini e la paragonarono alla loro opera, non si accorsero della contraddizione, non compresero la molteplicità del loro spirito, non ricercarono nella loro vita qualcosa di più grande dei loro atti, e giunsero fino al lacrimevole assurdo di stabilire un rapporto di causalità tra la piccola vita e la grande opera. Credettero, comprendete? Che l'incosciente fosse un prodotto della coscienza, che l'opera d'arte fosse fatta dall'ambiente e non dall' artista, che noi insomma c'inganniamo quando giudichiamo l'anima di un poeta dalle sue canzoni e non dai conti della lavandaia.
   La biografia di un artista ha ben poco di comune con la sua opera, i suoi atti non sono la causa delle sue ispirazioni. V'è contatto, non causalità, non identità ma relazioni. Forse v'è relazione tra la mia malinconia d'oggi e le nuvole erranti, ma, se taluno facesse la storia del cielo e del clima durante il mese di febbraio, non farebbe la storia del mio spirito durante lo stesso mese. Così un piccolo fatto nella vita di un artista può fondere e concretare alcune nostre intuizioni sul suo spirito dateci dalla lettura dell'opera sua, ma i piccoli fatti della vita di un artista non sono nè la sua vita nè la sua opera.
   La storia dell'arte, l'unica storia dell'arte possibile, quella che ordina nel tempo e nello spazio le immagini e i miti e i sentimenti che destano in noi i capolavori, può trarre giovamento dalla storia materiale delle vite e delle circostanze, ma non sí fonda su di esse, non è una sintesi di cui esse costituiscano l'analisi. La vita intima dell'artista si traduce nella sua opera, e la storia dell'arte non può fondarsi che su questa; ma se talvolta in un fuggevole momento della sua vita pratica egli denudò per un attimo la sua anima segreta, quel suo atto, quella sua parola è come un frammento dell'opera ed è materia d'ispirazione pel critico. Ricordiamo come gli antichi narravano la vita degli artisti e degli eroi: per aneddoti ricchi di significazioni profonde, belli e compiuti come miti o come capolavori. Ricordiamo l'infanzia di Sofocle, la morte di Euripide; la cecità di Stesicoro. Il criticismo moderno si gloria di aver distrutto queste ed altre leggende, ma, quand'anco vi fosse riuscito sempre - e invece troppo spesso osserviamo nell'analisi critica di queste leggende letterarie una volontà pervicace e perspicace di distruzione - avrebbe dimostrato che esse non corrispondono alla realtà, mentre noi sentiamo che rappresentano la verità, avrebbe detto che esse non narrano l'esistenza del poeta, mentre noi sappiamo che ne cantano la vita. Or, se la storia dei fatti esterni dell'Arte, offrirà allo storico dell'Arte le parole e gli atti significativi che ormai la tradizione gli nega, se nelle sue narrazioni si troveranno talune leggende storiche, renderà al critico un grande servigio. Anche gli gioverà per il conseguimento di quella favorevole disposizione d'animo, che chiamai libertà e che è necessaria per la creazione concorde, in cui è tutta l'opera del critico. Poichè talora un semplice particolare conduce l'anima nostra ad una vita diversa e l'apre alle parole di altri tempi; chi non sa i blandi suggerimenti d un capitello tra le frasche, chi non ricorda i gesti di qualche curva statua muscolosa in un viale? Ora se noi sapremo le fogge del vestire di un'epoca lontana e vedremo le acconciature femminili e udremo gl'inni dei soldati di antiche nazioni, la nostra fantasia diverrà più sicura e ardita e più facilmente potrà godere l'illusione di una fuga dal suo presente verso l'epoca e le passioni cantate dei poeti.
   Stimoli e suggerimenti potrà dunque offrire la storia materiale al futuro storico ideale, non già materia e contenuto. E l'unica lotta che io comprenderei sarebbe quella che scoppiasse fra i sostenitori dell'uno e dell'altro metodo, non perchè puramente studiosi dell'uno e dell'altro, ma in quanto gli storici positivi pretenderebbero di narrare la storia della poesia e gli storici ideali non vedrebbero in essi che espositori della vita materiale dei letterati, utili e rispettabili solamente finchè dalla ricerca positiva non tentano di trarre ciò che è dominio esclusivo de l'intuizione geniale - la significazione del capolavoro e la vita interiore dell'artefice. Ho pronunciato le parole ideale e positivo, e ho inteso dire che le vicende della storia e della critica letteraria negli ultimi trent'anni e quelle che noi possiamo prevedere nei prossimi trent'anni derivano dal l'opposizione fra questi due atteggiamenti dello spirito umano. La funzione dell'uomo va anche oltre la sua volontà, e molti studiosi, pure pieni di grande rispetto verso l'artista e di grande ammirazione verso l'opera d'arte, non compresero, quando affannarono che la stona letteraria consisteva nella narrazione dei tatti pratici e la critica nella correzione del testo non compresero di operare parallelamente al positivismo in filosofia, e socialismo in politica, al verismo in arte. Quand'essi ebbero accumulato una rispettabile quantità di fatti e di documenti, venne uno scenziato, che, con quelle prove alla mano, pretese di dimostrare ad uso della mediocrità imperante e della bestia triumphans democratica, che il genio è degenerazione.
   Ma è una strana pretesa quella del signor o. s. che sul Giornale d'Italia incolpa il metodo storico della decadenza della gioventù universitaria e ne fa responsabili le facoltà di lettere. Ma ha fatto dunque il positivismo gl'intelletti vili e il verismo gli schifosi imbrattacarte, o non piuttosto gl'intelletti vili han creato il positivismo e i cuochi disoccupati l'arte realistica? Così, se i giovani formati dalle Università persistono, non a studiare i fatti, i documenti e i codici chè in questo non vedo nulla di peccaminoso - ma ad affermare che essi fanno la storia dell'Arte, il che equivale a un curioso giochetto di parole, la storia positiva dello spirito umano se si salvano coll'ammettere la sintesi futura, ma d'altra parte gridano che l'analisi non è ancora compiuta e la sintesi sarebbe prematura, quasichè spettasse ai tagliapietre d'indicare all'architetto il giorno in cui debbasi iniziare la costruzione, se chiamano acchiappanuvole il pensatore e soggettivismo - notate bene che questa parola è per essi un insulto - la critica d'arte, se tutto ciò avviene, non è causa ma conseguenza di quella loro meschinità intellettuale che cortesemente, troppo cortesemente Guido


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Mazzoni deplorava. Se fossero uomini di genio farebbero grandi cose, e se ci fosse l'uomo di genio comincerebbero, magari a denti stretti, ad apprezzare le grandi cose. Ma oggi fra chi è la lotta? Dove sono queste sublimi intelligenze della critica, che combattono per salvare dal disprezzo dei positivisti la loro grande opera? Fuori i nomi! Perchè voi, signor o. s., che combattete il metodo storico non rivelate il vostro nome? Forse perchè avete opere di storia ideale e di critica vera che pensate dì presentare al prossimo concorso universitario, e nascondete la vostra persona per timore dell'astio dei dottori?
   Io me l'auguro per voi e per la critica; ma, se penso che un giorno o l'altro la reazione che noi inauguriamo potrà condurre alla creazione di cattedre di critica e di storia ideale nelle Regie Università, inorridisco.
   Chi ci salverà dai professori ordinarii e straordinari di genio creativo e d'istinzione critica?


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